martedì, giugno 02, 2009

Paparazzi.

Paparazzi era un filmetto girato da Neri parenti con i soliti Boldi e De Sica, ai tempi in cui il loro idillio artistico era ancora ben saldo e una pletora di cammei, da Sgarbi a Fede, da Valeria Mazza a Claudio Lippi. La trama deve aver ispirato l’esistenza di Fabrizio Corona, figlio del più prestigioso e compianto Vittorio, scomparso per sua fortuna prima di vedere il primo arresto del figlio.
Riflettendoci un po’, siamo stati tutti paparazzi almeno una volta nella vita. Basta una qualsiasi cerimonia per scatenare il ditino dei parenti sulla compattina pronta a immortalare attimi indimenticabili. Ora che c’è perfino la possibilità di stampare gli scatti del telefonino, del palmare, della videocamera, praticamente tutta la popolazione vive qualche minuto da paparazzo. Le digitaline entrano in qualsiasi tasca e sono sempre pronte a immortalare qualsiasi istante della propria e dell’altrui esistenza. Vomito di bébé, il cane mentre si libera, la sigaretta dopo il caffè. Ogni gesto è un ottimo pretesto per fissare l’attimo fatidico in una zuppa di bit. Non c’è più limite. Avete presente quei minacciosi cartelli che vietano di scattare fotografie alle vetrine di negozi e centri commerciali? Sono un obsoleto fardello del passato poiché non è possibile vietare oggetti così piccoli e veloci a fissare immagini. Lo sapevate che in Francia è vietato scattare foto nei cimiteri?
Che cos’è, dunque, questa frenesia si mettere a fuoco, quando va bene, e fissare un istante che dovrebbe rimanere così eterno? La fotografia compulsiva come arma contro la morte e l’oblìo?
Chi guarderà i nostri file in futuro? Le stampe eseguite con la getto d’inchiostro di dieci anni fa sono sbavate già ora: che cosa tralasceremo ai nostri nipoti? L’hard disk esterno? La “chiavetta”?

Forse oggi lo scatto fotografico è l’ennesimo gesto ludico e automatico che compiamo con uno qualsiasi dei nostri piccoli gadget elettronici, dal telecomando al telefonino.
Tutto è vano. Ma uno scatto ci seppellirà.

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